Le industrie italiane del Cinema
Consapevole dell’importanza del cinema nella gestione del consenso sociale, il regime fascista si organizzò fin da subito per rilanciare la cinematografia. L’importante sforzo degli anni ‘20 di centralizzare la propaganda attraverso la creazione dell’Unione Cinematografica Educativa (LUCE) fu accompagnato nello stesso periodo dall’istituzione del Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop) che, attraverso considerevoli contributi a fondo perduto, finanziò direttamente l’industria dello spettacolo.
Il cinema sonoro in Italia arrivò nel 1930, incontrando l’entusiasmo di molti registi tra cui Mario Camerini, che con “Gli uomini, che mascalzoni…” (1932) portò al successo Vittorio De Sica con il primo ruolo rilevante. Il film racconta l’innamoramento e il successivo matrimonio di uno chauffeur (De Sica) e di una commessa (Lia Franca) in una Milano industriale e lavoratrice. Co-protagonisti del film sono la vettura guidata da De Sica e l’autostrada Milano-Laghi.
Quando l’economia italiana fu colpita dalla Depressione, l’industria del cinema fu soggetta a una serie di leggi protezionistiche, volte a limitare le importazioni; il governo tentò di dare una spinta ai film italiani tassando quelli stranieri, fino a ideare nel 1932 una vetrina internazionale per le produzioni italiane, la Mostra del Cinema di Venezia.
Nel 1935 viene istituito il Centro Sperimentale di Cinematografia, destinato a imporsi come il principale luogo di formazione professionale del cinema italiano. Dopo il disastroso incendio avvenuto negli studi cinematografici della vecchia Cines, si rese necessaria un’ulteriore struttura per rilanciare il cinema italiano: nel 1937 il Duce presenziò all’inaugurazione di Cinecittà, pensata in aperta sfida agli studios di Hollywood. A Cinecittà si girò “Scipione l’Africano”, il colosso cinematografico del ventennio, vigorosa celebrazione della grandezza di Roma.
Il cinema del periodo fascista contribuirà a formare l’idea di una società pacificata, sana e capace di slanci produttivi. Lo sfarzo e il lusso erano comunicati, nelle ambientazioni borghesi dei film, da immancabili telefoni bianchi simbolo di benessere, uno status atto a distinguersi dai più diffusi telefoni neri (questo genere fu infatti detto “Cinema dei telefoni bianchi”).
Migliaia di cinegiornali e documentari furono filmati per far raggiungere un consenso sempre più vasto al regime e alle sue imprese nel corso della storia fascista. “La cinematografia è l’arma più forte”, sosteneva il Duce, il mezzo più diretto per mostrare al popolo d’Italia la realtà dettata e voluta dal regime, il volto di un’Italia serena, che lavorava per migliorarsi e modernizzarsi, erano immagini di un periodo tranquillo che precedeva la tragedia della seconda guerra mondiale.